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Tokyo Mall

Immagine del redattore: Antonio CastielloAntonio Castiello

Metto a freno il mio ego e mi dico che per certo non posso aver capito molto di questa città. Tre giorni non bastano mica. Figurati se non capisci manco un cazzo di giapponese. Di fatti, l'unica parola che pronuncio al 7/11 è arigato ma il cassiere non mi risponde mai prego. Nemmeno la barista del Tully's Coffee. Lei fa proprio una brutta faccia, tipo se avessi appena offeso la madre. Forse è la mia pessima pronuncia e quello che esce dalla mia bocca sono solo offese o bestemmie.


Un ragazzo prova una giacca blu tipica giapponese
Lo sguardo di gusto della signora che sa che mi sta per inculare un sacco di yen. Per lei ero bellissimo con qualsiasi pezza.

Tokyo, sotto le mie scarpe e i miei occhi, si è delineata sotto una forma chiara. I rettangoli delle insegne luminose che costruiscono lo scheletro della città come un tetris fluorescente; poi, nelle tasche di grossi palazzi che guardano la calca di gente spendere, si riposano dei vicoli a luce spenta. Tokyo è un mercato di cose che io non riesco nemmeno a ricordare tutte. La persona che dorme in metro e con magica saggezza si sveglia alla fermata giusta. Le cascate di oggetti lanciate sugli scaffali dei Don Quijote. Ubriachi a Shinjuku che bloccano i taxi dalle loro corse. Akihabara, dai manga alle slot. I tonni e i bonito che ancora non ho capito se son la stessa cosa. Banchi di granchi e pesce essiccato. Un botto di the che troppo spesso mi sa di brodo di pesce. Le braci su cui si stendono spiedini infiniti. Pelle di pollo. Tentacoli di polpo. Così tanta carne di Kobe che mi chiedo dove mettano la gente lì se ci stanno tutti sti manzi. È il pistacchio di Bronte giapponese.


Lo shinkansen mi porta via da Tokyo ma mi lascia un pensiero fisso. Che cazzo avrò detto di male alla barista del Tully?

 

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