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Tamarindo - Parte 2

Immagine del redattore: Antonio CastielloAntonio Castiello

Le giornate di Tamarindo si scandivano tra sudore, karaoke e la ricerca di cose da fare. Pietro, fresco commercialista di Viterbo, si era messo in testa di coniare una nuova moneta. Aveva preso i ticket delle consumazioni e i biglietti avanzati dal botteghino. Per una piccola vena di megalomania nel suo animo, aveva deciso che la nuova moneta si dovesse chiamare Pietrino e l’aveva così suddivisa:


  • Ticket acqua = 1 Petrino

  • Ticket birra = 7 Pietrini

  • Biglietto di ingresso = 49 Pietrini


A tutta la popolazione di Tamarindo furono distribuiti seicento Pietrini ciascuno. Bastarono tre giorni per far accumulare tutti i Pietrini messi in circolazione nelle tasche del vecchio avvocato Antonio Cozza. Re indiscusso dei contenziosi assicurativi su tutta la provincia di Salerno, l’avvocato, nei suoi primi anni di pensione, aveva sviluppato un certa passione per le scommesse. Lui non scommetteva nemmeno un euro ma adorava sedersi sugli sgabelli delle ricevitorie ed osservare le persone che affidavano il loro stipendio ad una squadra di terza categoria argentina o a un cavallo di nome Chapo. Siccome i Pietrini non servivano a un cazzo, l’avvocato s’era inventato un giro di scommesse con annessa griglia di quote. La durata della Repubblica per oltre trenta giorni, l’avvocato la pagava a 50 Pietrini. Over sessanta a 150 Pietrini. Un po’ per una ludopatia latente in molti abitanti di Tamarindo, un po’ perché nessuno voleva tenersi quei pezzi di carta, tutti i Pietrini furono riversati per le scommesse dell’avvocato. Le casse dell’avvocato erano così piene che aveva pure pensato di ribattezzare la moneta a nome suo. Il commercialista nemmeno gli stava troppo simpatico ma restò umile e abbandonò presto l’idea di chiamare Cozze quei pezzi di carta.


Dopo diciassette giorni venne fuori l’ultima goccia di birra. Quella stessa sera, la competizione di air band sulle note dei successi dei Tamarindo fu abbastanza fiacca. Patrizia non mancò di maledire la gente di Ravenna e tutti quelli che avevano preteso più birra. Quando si sparse la voce oltre le barricate, le autorità fecero partire un embargo. Nessuno poteva detenere bevande alcoliche nel raggio di tre chilometri dalle mura della Repubblica Indipendente. Tra chi c’era fuori e chi era dentro, girava la voce che quella rappresentava la prima grande tegola sulla vita dello stato più piccolo d’Europa. Era iniziata con un sorso di birra calda e per così poco poteva finire. Le quote di Cozza cominciavano ad abbassarsi.

Salvatore Morra, detto Lo Scienziato, voleva diventare un eroe per la sua nuova patria. Sognava la sua statua in mezzo a una piazzetta, in realtà gli andava bene pure una piccola targa scritta a mano, appesa su uno dei pali del parco. Giovane operaio di Napoli, licenziato al terzo giorno di occupazione, aveva la passione per il fai da te e la chimica. Mentre Pietro gli raccontava del meraviglioso mondo della NASpI, gli venne in testa l’idea patriota: fare la birra artigianale. Ci vollero due giorni al popolo di fuori, per far arrivare tutti gli ingredienti che Lo Scienziato aveva richiesto. Dopo sette prove, due sciorde fulminanti e tre vecchi bidoni quasi esplosi, si raggiunse il risultato che, all’unanimità, fu battezzato La Chiavica Beer o semplicemente Chiavica. Ogni sorso era come il primo tiro di Marlboro Rossa a tredici anni. Gli abitanti di Tamarindo si abituarono presto a berla a temperatura ambiente, in quantità non più grandi di un semplice shot. Nemmeno Luca da Ravenna ne richiedeva più di un bicchiere a sera. Allo Scienziato invece, non fu riconosciuta nessuna onorificenza se non qualche bestemmia dedicata ogni volta che qualcuno buttava giù la Chiavica


Nel grande palazzo del comune di Salerno, la situazione di Tamarindo minacciava di far cadere una testa al giorno. Con la sindaca ormai dispersa sul Perito Moreno, a prendere le redini della città, si era ritrovato il suo vice: il piccolo Paolo. Piccolo perché a trentadue anni, se si guardava intorno durante i consigli comunali, poteva benissimo pensare di stare a pranzo con i genitori e gli zii. Dopo aver ricevuto un cacamento di cazzo dal governo, cittadini con lo slogan Tamarindo Puzza, opposizione che insisteva sulle dimissioni, il piccolo Paolo si preparò un bel discorso. Durante il consiglio comunale successivo però, il Salone dei Marmi era diventato una giungla. Impossibilitato ad usare toni pacati e ragionevoli, il piccolo Paolo zittì tutte le zie e gli zii salendo in piedi sul tavolo e pronunciando, testualmente, le seguenti parole: “Avete cacato il cazzo. Se vogliamo la fine di questa grandissima rottura di coglioni, la fine della puzza di merda e sudore… l’unica soluzione è riportare i Tamarindo su quel palco e fargli fare questa cazzo di ultima canzone.” era la cosa giusta. Semplice e lineare. La giungla tornò ad essere un luogo di civiltà e vecchiamma. Votarono tutti per il sì. C’era un unico grande problema. Quel problema che si ripete a tanta gente a fine mese o mentre sei al bar alle quattro del mattino e vorresti quel maledetto ultimo giro. Il solito, il grande scoglio, motivo di guerre e distruzioni. Non avevano un euro. Come convincere una band durante un tour mondiale a tornare a suonare a Salerno? Aldo Bello, assessore alla cultura e forte sostenitore di idee di merda, propose l’utilizzo di una cover band. Nessuno dei presenti, animato da un briciolo di buon senso, prese in seria considerazione la proposta. Il piccolo Paolo, a un palmo dal crollo fisico e mentale, decise di attivare l’arma più potente che anni di malagestione e bilanci in rosso avevano prodotto per salvare quella città. La grande catena di favori. Così, mentre gli abitanti di Tamarindo passavano il tempo a rendere bevibile la Chiavica e scavare nuove buche per la cacca, la giunta comunale cucinava, a fuoco basso, l’ultimo pasto della repubblica. Nel giro di una settimana condita da centottantasette telefonate, centodue caffé offerti, quattro promesse di impiego e sette cene pagate in qualsiasi ristorante di Salerno, il piccolo Paolo riuscì ad ottenere un incontro coi Tamarindo prima della loro tappa di Parigi. Partirono in tre con la Panda elettrica: ovviamente il sindaco, Aldo Bello perchè fece tutto un pippone sull’opportunità di ampliare le connessioni culturali della città e Agata, dipendente comunale che masticava un po’ d’inglese e non aveva mai visto Parigi. Ci misero diciotto ore con cinque ricariche alla macchina e dodici soste perché, a sessantasette anni, Aldo cominciava ad avere problemi alla prostata. La macchina era carica di regali dai gentili sponsor della spedizione: la mammella di Battipaglia, otto vasetti di alici salate di Cetara, cinque soppressate di Gioi, nove boccacci di tonno rosso fatti dalla zia di Aldo, un cartone di limoncello, due di vino tra fiano e aglianico, una mezza bottiglia di cuncierto del marito di Agata… La sorpresa più grande nell’arrivare a Parigi, non fu la Tour Eiffel illuminata o la mancanza di bidet, ma il fatto che tutti i componenti della band erano astemi e vegani. Il loro manager fu ben contento di farsi carico di tutta quella roba.


A tre ore dalla loro data parigina, i Tamarindo facevano lezione di pilates nella loro enorme suite. Parcheggiata l’auto in doppia fila, all’esterno dell’hotel, la triade del comune di Salerno fece partire la missione: Tamarindo come back, senza un euro. Quello che accadde in quella stanza d’albergo fu il One Woman Show di Agata. Scivolando tra l’inglese e qualche mezza parola di dialetto, Agata salutò tutti con abbracci e baci. Pareva una madre che rivedeva finalmente i suoi figli alla cena di Natale; mentre Aldo e Paolo ammiravano lo spettacolo increduli, Agata puntò Kins. Se lo mise sotto braccio e cominciò a passeggiare per l’enorme suite parigina. Disse al leader della band che se sputacchiava qualche parola in inglese era grazie a suo padre Owen. A vent’anni, aveva fatto una vacanza studio alla Cardiff University. Lì, in circostanze che aveva un po’ di scuorno a raccontare, aveva incontrato Owen e subito era nata una bella amicizia. Qui Agata si fece tutta rossa. Tre settimane stupende. Al suo ritorno presso le palazzine di Pastena, continuavano a mandarsi messaggi, videochiamate e pure qualche cartolina…

“You know Kins… I could be your mother but I am too much in love with Salerno seaside” gli disse proprio così a un Kins quasi in lacrime; poi gli espresse tutto il suo dispiacere per la morte di Owen di cui aveva letto qualche mese prima da un post di un amico in comune su Facebook. Voleva venire ai funerali ma era troppo dolore e l’aereo le faceva venire l’ansia. Stabilito questo ponte emotivo, Agata se lo strinse ancora più forte al braccio e calò la fatidica richiesta. Un ritorno a Salerno, una sola canzone e tutto quel cacamiento di cazzo (per loro) della Repubblica Indipendente di Tamarindo si sarebbe estinto. La band rimase sorpresa. Dissero di aver sentito una mezza cosa a Rio de Janeiro, su un gruppo di loro fan che avevano occupato una città italiana ma non c’avevano dato troppo conto.

“I am sorry to say… budget zero” per queste parole Agata s’era messa Kins face to face. Il lungo capello gallese si mosse in direzione opposta, un breve sguardo al resto della band. Le teste dei Tamarindo annuivano. “Ok Agata, we will be back.”

“Zero budget?”

“Yes for free.”


Sulla strada del ritorno, all’altezza di Bologna, il piccolo Paolo sciolse la sua incredulità.

“Agata ma tu veramente hai conosciuto il padre di quello lì?”

“Ma chi cazzo lo conosce a sto Owen. M’era uscito su Facebook che il padre di sto qua era morto. Mi so fatta due ricerche ed ecco qua. Sarà pure bravo a cantare ma è nu bell fess.” Aldo e Paolo avrebbero voluto avere milioni di mani per far partire la più grande standing ovation di sempre. Le giurarono l’intitolazione della nuova rotatoria a Sala Abbagnano e il ginseng sempre pagato, tutte le mattine.


Passarono due settimane al fatidico ritorno dei Tamarindo a Salerno. Nel frattempo, la Repubblica aveva perso il suo smalto e l’entusiasmo dei primi giorni. Bianca aveva chiuso il suo account TikTok quando, presumibilmente dei bot indiani, la tartassarono di commenti Tamarindo Puzza. Silvia pensava a lasciare gli studi e mettersi finalmente a fare quel volontariato in Guatemala. Luca, traumatizzato dalla Chiavica sempre più chiavica, pensava addirittura a smettere di bere. Pietro cercava nuove ispirazioni dopo che la sua moneta non se l’era cacata nessuno.

Achille, operatore ecologico, fu l’ultimo tassello per completare l’opera del piccolo Paolo. La notte dell’occupazione, Achille, senza capire un cazzo di quello che fosse successo e senza chiedersi dove fossero i suoi colleghi, scavalcò un lato delle transenne per far partire le consuete pulizie del parco. Poi, un po’ perché aveva visto una ragazza che gli piaceva e un po’ perché aveva una buona scusa per non faticare, si era unito agli occupanti di Tamarindo. Quando ricevette la chiamata del sindaco che gli prometteva di ridargli il posto di lavoro e apparare tutto con la moglie e i tre figli lasciati a casa, decise subito di collaborare. In fondo la sua love story non era mai andata in porto.

Decisero di mantenere un profilo basso, e far entrare di nascosto i Tamarindo durante la serata di air band. Con la scusa di dover svuotare un grande carico dopo aver bevuto un sorso di Chiavica, Achille si mosse verso l’aiuola più lontana dove i Tamarindo, vestiti da fan dei Tamarindo, lo aspettavano. Nell’ultima scialba esibizione di Luca da Ravenna e la sua air band, i Tamarindo salirono sul palco con l’unica frase appresa da Agata in italiano.

“Buonasera wajuuu” l’accento e  il capello di Kins non lasciarono alcun dubbio. Solo un attimo di silenzio e poi un boato svegliò tutto il popolo di dentro e di fuori. Le barricate furono sfondate ed entrarono con la folla tutti gli strumenti. Qualcuno reggeva una cassa, altri un rullante, un paio una tastiera, altri le chitarre e i microfoni. In meno di tre minuti fu allestito un impianto di fortuna. Kins guardò i suoi compagni e poi le centinaia di persone sotto al palco.

“Ok let’s go with the last one” i Tamarindo suonarono per diciassette volte la stessa canzone. La loro classica chiusura The end of the World. Si emozionarono tutti. Piangeva il piccolo Paolo per essersi salvato il culo. Piangeva LaMatitaDellaSnai che in quelle settimane non aveva disegnato un cazzo. Piangeva Luca da Ravenna che nella quinta replica era partito il pogo e si era preso una gomitata nelle palle. Piangeva l’avvocato Cozza mentre lanciava tutti i Pietrini verso la folla.

Dopo la diciassettesima volta, qualcuno timido, un po’ per scherzo, tentò di far ripartire il coro origine di tutto. Se non metti l… si prese un calcio in culo dalla signora Agata e tutti lasciarono l’area tranquilli, desiderosi di tornare alle proprie case e alle proprie docce.

Terminò così, dopo meno di un mese, la magica storia della Repubblica Indipendente di Tamarindo.

 

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